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Le mani su Messina

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«I forestieri sanno che a Messina c’è poco o nulla da vedere, che mancano dei buoni hotels e pensions, che la città è poco pulita, che la cattiva fognatura esala miasmi, che l’acqua potabile difetta. Essi, appena arrivati a Messina, non vi si fermano, partono per Taormina, piccolo ma felice paese, che ha capito i tempi, che fa parlare di sè in tutto il mondo, che sa offrire, insieme al suo sole e alle sue bellezze di natura e d’arte, un comfort adeguato a tutte le borse». 

Sono le parole di un ingegnere messinese, scritte nel marzo dell’anno 1900. 

Per alcuni aspetti potrebbero andar bene anche oggi. Messina ha sempre avuto un rapporto difficile con i turisti perché, sia prima che dopo il terremoto, non ha provveduto, usiamo le stesse parole dell’ing. Liotta, a liberarsi dai «rioni luridi, privi di aria e di luce, con vie strette e case inabitabili», ma soprattutto ha commesso il grossolano errore di privarsi delle più manifeste opportunità turistiche delle spiagge e del mare, sbarrandosene l’accesso con i binari della ferrovia, le strade, le baracche. 

Il mare, «pel quale spenderebbero tesori le città che non l’hanno», poteva essere la grande risorsa di questa sfortunata città. E dire che, nonostante tutto, un secolo fa venivano regnanti e turisti da tutto il mondo per visitare i palazzi storici, le chiese e persino il Gran Camposanto monumentale.

Dario De Pasquale

 

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Ho sempre avuto un particolare interesse verso la storia urbana, le sue istituzioni, i suoi cambiamenti sociali, ovvero verso la storia della trasformazione della città nel suo insieme di edifici, monumenti, strade, della sua amministrazione e dei suoi cittadini.

La città è quel misterioso meccanismo che mi ha sempre affascinato, soprattutto se ottocentesca.

Dario De Pasquale

L’OTTOCENTO

L’Ottocento è un secolo entusiasmante perché ricco di scoperte e pieno di vive contraddizioni, diviso fra un settecento riformista e un novecento avanguardista, fra i vecchi privilegi di classe e l’avanzare dello stato di diritto, tra la vecchia ricchezza della terra e la nuova ricchezza delle pubbliche amministrazioni, dei servizi pubblici, della tecnologia al servizio dell’uomo.

Non solo: l’Ottocento è un secolo creativo, internazionalista, che apre le porte al forestiero e per questo s’organizza, ponendo le basi della società attuale con nuove vie di comunicazione tra il centro e la periferia, i grandi luoghi d’ospitalità come gli alberghi, i teatri, i caffè, le biblioteche, le scuole e i luoghi della gestione del tempo libero, come i musei, i giardini, le fontane, i monumenti, i viali.

MESSINA nell’Ottocento

Messina negli anni ’60 dell’Ottocento è una città quasi metropolitana: in tutto il meridione ce ne sono solamente altre due con più di 100.000 abitanti: Napoli a Palermo. In vent’anni la popolazione cresce a dismisura e a un tale sviluppo demografico non corrisponde un adeguato sviluppo urbano e, mentre Napoli e Palermo operavano sventramenti, Messina si estendeva sulla pianta della vecchia città, senza compiere una vera e propria opera di razionalizzazione del territorio urbano. 

Il perchè è ravvisabile nelle ferventi polemiche, sorte all’interno del consiglio comunale, per la stesura di un piano regolatore adeguato alle direttive del governo unitario. Nell’attesa di un piano definitivo, si mettevano in pratica «piani d’arte» ad hoc che riproponevano i contenuti dell’elastico piano regolatore borbonico del 13 aprile 1859 . Da qui anche un’irregolare crescita architettonica della città, dove tutti potevano costruire tutto, in barba alla legge nazionale.

La città s’arricchisce di Esposizioni internazionali di Belle Arti (1839, 1882, 1900), mentre partecipa attivamente a quelle di Napoli del 1855, a quella universale di Parigi dello stesso anno, di Torino e di Milano del 1881 e del 1887, di Palermo del 1891-92, per citare solo quelle più importanti. 

Furono queste le grandi vetrine dei validi artisti locali, come i pittori Letterio Subba, Michele Panebianco, Giacomo Conti, Dario Querci e degli scultori Gregorio Zappalà, Gaetano Russo, Giovanni Scarfì (di cui scopriamo un interessante rapporto con lo scultore palermitano Mario Rutelli), ma anche della borghesia messinese che si mostrava al pubblico europeo, e di oltreoceano, con case grandi e bellissime, ricche di quadri e di sculture, così come scopriamo con la visita del re Umberto I e della sua consorte.

Messina viveva di piccole e medie attività imprenditoriali e di molto artigianato: una città a misura di borghese visto che il borghese è il maggior consumatore di beni superflui:

EbanistaMortillaro Salvatore
Ebanista (2)Calascione Stellario, Cangeri Giovanni
Fabbricante di Busti di donna (2)Palumbo Felice, Palumbo Vincenzo
Fabbricante di Cappelli (2)Arcidiacono Giuseppe, Visco Girolamo
Fabbricante di Cappelli (2)Quattrocchi Giuseppe, Ragona Carmelo
Fabbricanti di guanti (1)Dotto Vedova di Antonio
Fabbricanti di Guarnimenti di carrozze (3)Bonaccorso Paolo, Carrozza Domenico, De Cola Vincenzo
Fabbricanti di Oggetti d’oro (3)Caizzone Vito, Cara Antonio, Carnazza Antonio
Fabbricanti di Oggetti d’oro (7)Cotugno Basilio, Crisafulli Giuseppe, Frassica Paolo, Lo Giudice Candido, Ponzio Salvatore, Sergi Giovanni, Zodda Michele
IncisoreBenincasa prof. Giovanni
IncisoreMinasi Antonino
Mercanti Sarti (6)Bella Domenico, Bongiovanni Antonio, Bossa Domenico, Cotugno Letterio, Magno Antonio, Provvidenti Angelo, 
Modisti e modiste (6)Bertini Antonina, Coglitore Francesco, Detullio Ferdinando, Gentile Sebastiano, Savasta Giuseppa, Villari Anna
Negoziante BanchiereFratelli Fischer
Negoziante di oggetti d’oro (11)Aliotta Carmela, Andronico Alessandro, Benigni Vincenzo, Bruno Luigi, Crisafulli Giuseppe, Erbicelli Concetta, Farsetti Giovanni, Lo Giudice Candido e Vincenzo, Oliva Francesco, Prestopino Gaetano, Savoia Antonio
Negoziante di oggetti d’oro (3)Cara Antonio, Sorropago Lucio, Talamo Michele
Negoziante di prodotti (3)De Pasquale Simone e fratelli, Polimeni Francesco Saverio, Rizzo Antonino
Negozianti di graniDe Martino Tommaso e figli, De Natale Tommaso e fratelli, Mauromati F. G. di Demetrio
Venditori di CuoiamiTrombetta Antonino, Lanza, Ainis

È un’Ottocento in cui si fa strada la borghesia, con il la sua mentalità positivista, e la Belle Epoque.

La borghesia ottocentesca

I personaggi che la popolano sono intellettuali cosmopoliti, ex rivoluzionari che si spostano da una parte all’altra della penisola, si scambiano opinioni, criticano, contestano.  

Nel mio lavoro mi sono servito più volte di loro, sono uomini che vogliono una parte attiva nella società, che chiedono la certezza del diritto. 

Insieme a loro e contro di loro si muove parallela una classe sociale emergente, più nota con l’accezione di  piccola borghesia, fatta di avvocati, notai, procuratori legali, medici, farmacisti, agrimensori, ingegneri, liberi professionisti rampanti che trovano ampi spazi nell’amministrazione locale, nei consigli comunali, provinciali, nei tribunali, nella camera di commercio e da dove coordinano la propria attività economica. Queste caratteristiche, comuni, come ci conferma Carlo Cattaneo, a tante città italiane, sia settentrionali che meridionali, sono il fattore unificante del tessuto culturale italiano, insieme a quella classe d’intellettuali ex rivoluzionari che avevano lanciato un entusiasmante ponte di collegamento culturale e politico fra le maggiori città d’Italia e le grandi capitali europee. 

Questi uomini riescono dove i loro padri avevano fallito con la rivoluzione. E riescono non imbracciando forconi o fucili, non con le barricate, ma utilizzando un sistema tanto semplice quanto efficiente: la legge. 

L’imperativo categorico è sottrarre la terra e le proprietà immobiliari alla borghesia agraria.

L’espropriazione per pubblica utilità

Nel 1865 venne introdotto un meccanismo di notevole importanza per la storia politico-sociale d’Italia: l’espropriazione per pubblica utilità. Sotto questa dicitura si compirono veri e propri misfatti.

Il Piano Regolatore messinese del 1864

Il 30 novembre 1863 si riuniva la commissione per l’esame del piano regolatore dei nuovi quartieri a sud della città, secondo il progetto presentato dall’ing. Giovanni Papa. Come elemento di comparazione fu portato all’attenzione del consiglio anche il lavoro dell’ingegner Leone Savoja. 

Il 12 marzo 1864 la commissione presentò la sua relazione, sentiti i pareri dei due progettisti Savoja e Papa.

L’obiettivo principale era impedire la costruzione di fabbricati nelle zone destinate ad espansione, in modo tale da non pregiudicare sviluppi futuri. Inoltre, fu votata un’intelligente proposta sull’altezza delle case, da limitarsi per «questioni di sicurezza».

Queste misure furono anticipatrici della prima legge del Parlamento nazionale sull’edilizia, la 2359 del 25 giugno 1865, intitolata «Disciplina delle espropriazioni forzate per causa di pubblica utilità». Con essa s’introducevano il Piano Regolatore Edilizio ed il Piano di Ampliamento: il primo permetteva di aggiornare il sistema viario stradale e di definire le misure e i rapporti degli edifici nuovi o esistenti da ristrutturare; il secondo mirava a selezionare le aree da destinare a nuova edificazione e alla nuova viabilità. I piani potevano essere adottati solo dai Comuni con più di diecimila abitanti e comportavano il vantaggio del riconoscimento implicito della dichiarazione di pubblica utilità nell’arco di 25 anni. Il Comune poteva procedere all’espropriazione forzata dietro a un compenso pari  al valore di mercato delle aree. Il diritto di edificazione, non ancora subordinato al rilascio di una licenza edilizia, si basava solo su criteri di carattere estetico («regolamento e commissione di ornato») ed alcune condizioni minime di abitabilità («considerazioni di ordine igienico-sanitario»).

Nel resto d’Italia questa legge ebbe una scarsa applicazione per le onerose spese degli espropri e, nell’attesa di una riforma legislativa in merito, si approvavano i nuovi piani regolatori parziali attraverso leggi speciali. Da qui la permanenza nei centri urbani di zone baraccate e insalubri, dove il colera si diffondeva con estrema rapidità. 

A Messina, ad esempio, fu proprio il colera ad accelerare il processo d’introduzione delle misure di igiene pubblica, nel 1854, con l’istituzione di un Gran Camposanto lontano dal centro abitato e nel 1867 con le opere d’arginamento dei torrenti che attraversavano la città. 

Il Parlamento affrontò il problema, per la prima volta e a livello nazionale, nel 1885, in seguito alla grave epidemia di colera scoppiata a Napoli l’anno precedente.

La legge nazionale 2892 del 15/1/1885, intitolata «Legge per il risanamento della città di Napoli», consentiva la demolizione di baracche e tuguri per fini igienici e risolveva il problema degli espropri introducendo un innovativo sistema di determinazione delle indennità e suscitando, ancora oggi, un notevole interesse per il giusto equilibrio tra cura del bene pubblico e tutela dell’interesse privato. L’indennità non veniva calcolata al prezzo di mercato, come solitamente si faceva, ma in base a una media del valore venale dell’immobile e la rendita d’affitto calcolata negli ultimi dieci anni (art. 13). In mancanza di dati sull’affitto, si ricorreva all’imponibile netto delle imposte sui terreni e sui fabbricati. Su questo modello furono adattate le leggi speciali sui piani regolatori di altre città, fino all’emanazione della legge n. 640 del 1936 sulla licenza edilizia e della legge urbanistica n. 1150 del 1942.

Dal 1860 fino al terremoto del 1908 registriamo qualcosa come un migliaio di espropriazioni per pubblica utilità, circa 20 l’anno. Quasi lo stesso numero (955) di aggiudicazioni immobiliari private, effettuate nello stesso periodo. Ciò significa che le espropriazioni forzate a Messina erano pochissime se confrontate con quelle di Napoli, Palermo o Lecce (c’è un rapporto di 4 a 1) e che quindi le proprietà immobiliari erano concentrate nelle mani di pochi.

STATISTICHE ATTORI ESPROPRI E GRADUAZIONI:

AnniPrivatiIstituti religiosiDitteEnti pubbliciBancheTotale
1819-186018317 (istituti religiosi, monti di prestanza)01 (dazio civico)0201
1861-187615415 (istituti religiosi, monti di prestanza)25 (Intend. Finanza, Univ. PA)0176
1877-19005139 [(istituti religiosi, monti di prestanza, fondo culto (5)]1792 [Int. Finanza, Corte d’appello(2), comune (1), Uff.succ. (1), Genio militare (1), Ric.reg TP (1)]55686
1901-19082886 (istituti religiosi, monti di prestanza)932 (Int. Finanza)16351
1819-190811384728130711414

L’espropriazione veniva eseguita al prezzo di mercato del bene immobile (almeno fino al 1885), quindi più alta era la sua rendita, più alto era il ricavo. Di qui l’esigenza di dotare gli edifici di tutte le migliorie possibili per aumentarne la rendita: sopraelevazioni, parapetti, balconi, mezzanini.

Gli immobili erano una fonte di reddito unica, capace di fruttare, in poco tempo, guadagni dal 100 al 300%, situazione comune a quasi tutte le città italiane come ci conferma lo studioso Ettore Ciccotti per Firenze, Giacomo Macry per Napoli, Lepre e Salvemini per Lecce e Bari.

Tutto però a scapito della stabilità strutturale degli edifici che, sotto la scossa di una magnitudo di 7.2, crollarono come leggere scatole di sabbia. 

Le espropriazioni erano legate al nuovo piano d’ampliamento della città che prevedeva la costruzione di nuove arterie stradali, principali e secondarie. 

Ogni anno il Comune dava fondo alle casse per pagare i proprietari di case da rimuovere o di terreni da occupare, e per pagare i danni arrecati ai cittadini durante l’esecuzione dei lavori. 

Si potrebbe pensare, dunque, che vi fosse un limite nella costruzione di opere pubbliche, relativo alla liquidità disponibile.

E invece no, perché quando le casse comunali erano vuote si faceva ricorso al credito bancario. 

Il credito sottrasse i patrimoni immobiliari alla borghesia agraria e creò una estesa classe di debitori obbligati a nuove prestazioni (voto elettorale, clientele, concessione di appalti). 

In altre parole, il credito diventava un perfido strumento d’influenza sulle scelte politiche.

Il potere dei palazzi

Abbiamo ricostruito la mappa dell’appropriazione immobiliare della città per zone e per famiglie (gli armatori Bonanno e Peirce lungo il Corso V.E. e il viale Boccetta, gli imprenditori agricoli Loffredo nella zona di Casa Pia, il commerciante di grani Pirandello proprio nell’area dove ci troviamo noi adesso fino al porto, figuratevi che utilizzò questa chiesa, abusivamente, come magazzino per le sue merci).

La città cadeva lentamente nelle mani dei suoi amministratori.

Il potere degli avvocati, degli ingegneri e dei notai aumentava anche in misura degli immobili posseduti. Le famiglie degli avvocati erano distribuite in vie centrali, fra il Corso Cavour e la via Cardines: Celi in via I Settembre, Spadaro, Sterio, Sturniolo, Tripodo e De Cola in via 2 Argentieri, Perrone Paladini e Ansà in via Bisalari, Pulejo e Picardi in via Bocca Barile, Serra, Crisafulli, Fleres e Attardi in via Idria, Sorrentino, Lombardo, Belardinelli, Duci, De Cola, La Spada in via Università. 

I procuratori legali erano centoventi, appartenenti ai seguenti gruppi familiari: Chirico, Coglitore, Crisafulli, De Luca, Fleres, Lombardo, Magaudda, Mastroeni, Mirone, Parisi, Raffone, Russo, Sgroi, Tripodo, Villari, Zanghì, principalmente domiciliati nel centro storico della città, presso le vie Cardines, Idria, Darsena, Corso Cavour, Largo del Duomo, Garibaldi. 

Fra gli ingegneri: i Papa e i Labruto in via Cavour, i Mallandrino in via Neve, i Subba in via Giuseppe Maria delle Trombe, i Borzì in via Monasteri. La famiglia di avvocati e architetti Savoja aveva preso abitazione e studio in via S. Giacomo, accanto al Duomo. 

Le famiglie di notai Allitto, Tricomi, Gugliotta risiedevano lungo il Corso Cavour, i Basile in via Neve, una traversa di Via Garibaldi, alle spalle del Municipio, oggi scomparsa. 

Stranieri: Grill, Oates, Fischer, Walser, Jaeger, Sarauw, Sanderson, Baller, Barrett.

E tutti intenti ad aumentare il valore dei loro immobili con sopraelevazioni.

Il rischio sismico

Chi era consapevole del rischio? 

Molti credevano che i danni di un eventuale terremoto potessero mettere la città in ginocchio come era successo altre volte. 

Nel piano regolatore del 1863, infatti, si parlava già di “questioni di sicurezza”; 

nel 1876 il sindaco Cianciafara approvava la nascita di un Osservatorio Geodinamico, 

nel 1896 il sindaco D’Arrigo lo volle sul colle dell’Andria, 

nel 1903 il sindaco Martino lo inaugurava, 

nel 1905 il sindaco Marullo faceva acquistare il microsismografo Vicentini. 

Le 80.000 vittime non furono propriamente una conseguenza della potenza del movimento tellurico. 

Perchè le case di Messina resistettero, in buona parte, ai precedenti terremoti e non a questo? 

Soprattutto per via dell’innalzamento dei piani delle case, che, pur essendo vietato dalla legge, fu una pratica molto in voga dal 1863 al 1908: per più di quarant’anni si era costruito badando più all’aumento della rendita immobiliare che alla solidità dell’edificio.

Vi erano state denunce?

Tantissime. Alcune autorevoli come quella del geologo Mario Baratta che proprio per avere denunciato nelle tipologie costruttive le principali cause dei disastri nei terremoti calabro-siculi del 1894, 1895 e 1905 fu estromesso nel 1906 dalla Commissione geologica per gli studi sismici. Il terremoto di Messina del 1908 fu per lui un’occasione preziosa per rilanciare le sue teorie in una nuova pubblicazione che ebbe il solo sostegno economico della Società Geografica Italiana e nella quale allegava un elenco di edifici non crollati (casa Savoja, casa Staiti, casa Munafò).

Un’altra testimonianza preziosa ci è fornita dall’ing. Guglielmo Calderini di Roma, autore del Palazzo di Giustizia, e di una proposta di ricostruzione edilizia di Messina e di Reggio Calabria in seguito al disastro tellurico del 1905.

Un altro nome famoso è quello di Francois Flament Hennebique (1842-1921) architetto francese, pioniere delle costruzioni in cemento armato, migliorò la resistenza delle travi agli sforzi da taglio con l’introduzione delle staffe e intuì fra i primi il comportamento plastico del calcestruzzo armato (v. casa in rue Danton a Parigi del 1892, il ponte del Risorgimento a Roma 1911-1912, e prima del terremoto, la scala esterna dell’Ospedale civico di Messina, la copertura del torrente Portalegni con annesso serbatoio d’acqua e ponte di attraversamento, la casa di Vincenzo Cammareri).

E poi una parte degli ingegneri messinesi come Morabello, Hopkins, Liotta, Giunta…una moltitudine di consiglieri comunali a partire dagli anni ’60 (ricordiamo le battaglie di Salvatore Buscemi e di Michelangelo Bottari). Tutti citati in questo libro.

37 secondi e la città cadde in ginocchio. Fu certamente un disastro ma molte case restarono in piedi: quelle a un solo piano, le baracche in legno, quelle costruite in calcestruzzo armato. 

Pensate che subito dopo il terremoto si aprì una polemica tra il sismologo di fama internazionale Fusaki Omori e il nostro Mercalli circa l’utilità del rilevamento dell’entità del sisma attraverso i danni causati. 

Seguirono il baraccamento e una lenta ricostruzione della città, anche qui fra contrasti e polemiche che rimandiamo a un prossimo libro.

Obiettivi della ricerca

 La nostra ricerca, condotta proprio sulle modalità d’acquisizione immobiliare e sulle attività professionali dei borghesi messinesi (periodo 1847-1908), mira a svelare la forza e il potere raggiunto da questi parvenu dell’Ottocento, i nuovi ricchi che, in nome della libertà, del popolo sovrano e di Dio, confusero vizi privati e pubbliche virtù.

FONTI – Le ricche fonti utilizzate sono state gli Atti del Consiglio Comunale di Messina custoditi presso l’Archivio Storico Comunale di via Catania, integrate dalle Sentenze Civili (anni 1866-1925) e dai Decreti d’espropriazione e graduazione del Tribunale Civile di Messina (anni 1883-1933), custodite presso l’Archivio di Stato di Messina di via XXIV Maggio, dai periodici pubblicati a Messina tra il 1860 e il 1908, dalle brochures, dalle lettere e dai pamphlets di intellettuali dell’epoca e dalle cronache degli storici del tempo, giacenti presso la Biblioteca Regionale di Messina nelle due sedi di via Primo Settembre e Villaggio S. Agata. 

La documentazione d’archivio della Prefettura, della Questura, della Corte di Appello di Messina, che avrebbe potuto rendere ancora più interessante questa ricerca, è andata irrimediabilmente perduta sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale.



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