Diverse ma circostanziate vicende hanno dato vita a una fase di costruzione (e di ricostruzione) di edifici chiesastici nell’area del Valdemone: innanzitutto, il nuovo spirito conciliare post-tridentino che vedeva nell’Isola un particolare afflato da parte di clerici e fedeli verso una Chiesa rinnovata su basi controriformistiche; da non sottovalutare, inoltre, le favorevoli congiunture economiche del territorio messinese riguardo al comparto commerciale, alla produzione di seta e di prodotti agricoli, che trovava pronte imprenditoria e borghesia agraria a sfruttarne i buoni influssi.
La ricostruzione di edifici religiosi tra il 1580 e il 1630, in Sicilia, avvenne verso due direzioni: una, che possiamo dire “moderna”, rispettò lo schema iconografico degli edifici di culto tardo-rinascimentali siciliani, con corpo centrale trinavato e ampio transetto (sui modelli brunelleschiani); l’altra, più antica, riprese i caratteri dell’edificio basilicale medievale (ispirati alle basiliche paleocristiane e alle cattedrali normanne siciliane), con transetto ridotto e addossato alle absidi, caratteri comunque fortemente mediati da elementi di modernità come gli ordini, le grandi arcate a tutto sesto, le finestre.
La Chiesa di Santa Caterina di Galati, ad esempio, ripete più fedelmente schemi iconografici medievali: breve corpo longitudinale, unica navata con ampia scarsella coperta con volta a padiglione contenente la statua della titolare, priva di transetto, colonne in stile corinzio, piccole cappelle laterali insolitamente separate da tramezzi in muratura, secondo un linguaggio arcaico raramente adottato altrove (vedi eccezioni come la chiesa di San Cono a Naso, la matrice a Savoca, Santa Caterina a Piraino). In misura minore, ma sempre nello schema architettonico tardo-medievale, rientra la Chiesa del Rosario, trinavata e priva di transetto, con scarsella contenente l’altare e una statua gaginiana.
La sintesi spaziale tardo-rinascimentale, caratteristica, fra l’altro, dello stile gesuitico, ritorna, invece, nella chiesa galatese di Santa Maria Assunta, in cui un transetto sporgente separa il profondissimo coro piatto contenente una cripta e un presbiterio orientato verso il perno della volta cupolata, ma soprattutto nella chiesa di San Luca, con il suo ampio presbiterio sormontato da monumentali arcate.
In tutte è notevole l’influsso gesuitico, caratterizzato dall’esistenza di apparati iconografici ben definiti:
- strutture architettoniche che coniugavano lo stile medievale di paleocristiana memoria con il più colto stile rinascimentale;
- la presenza del pittore Pietro Novelli, che, insieme allo scultore Giacomo Serpotta, diede voce alla spiritualità gesuitica in Sicilia;
- le opere d’arte che raffiguravano S. Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia del Gesù.
CHIESA DI SANTA MARIA ASSUNTA
La Chiesa madre, oggi dedicata a S. Maria Assunta, nacque per volontà della famiglia Lanza nel 1575. Probabilmente, come spesso accadeva in queste circostanze, i fratelli Blasco e Corrado Lanza vollero manifestare la loro devozione nei confronti del sovrano Pietro III, che aveva concesso loro il feudo di Galati, anche intitolando la Chiesa al santo protettore per eccellenza dell’impero spagnolo: San Giacomo Apostolo. Nel 1617, per via della devozione popolare crescente verso Santa Teresa d’Avila, il santo ebbe un calo di notorietà, ma fu riabilitato dalla corte spagnola nel 1630, quale patrono unico. Senonché, nel 1643, Filippo IV per mettere fine alle numerose polemiche circa il patronato spirituale dell’impero, nominò come patrona e protettrice anche la Madonna. In Sicilia, per onorare le scelte dell’imperatore, scemava l’interesse verso San Giacomo e saliva quello verso la Vergine Maria: di conseguenza, alcune delle chiese siciliane intitolate a San Giacomo cambiarono denominazione a favore della nuova protettrice dell’impero, Maria Assunta. Tuttavia, San Giacomo continuò ad essere il santo-patrono spagnolo poiché la sua presenza era molto sentita presso i suoi fedeli, che continuavano periodicamente a percorrere l’itinerario del pellegrinaggio a lui dedicato (il Cammino di Santiago) e finalizzato alla visita della Cattedrale sita a Santiago de Compostela, in Galizia.
Così si spiega, con ogni probabilità, il permanere nella toponomastica di Galati Mamertino l’intestazione della Piazza a San Giacomo e l’intestazione della Chiesa Madre a Maria Assunta, sita in prossimità di un monastero che originariamente era intestato, appunto, al santo patrono spagnolo.
Nel corso dei secoli, la Chiesa madre di Galati Mamertino subì alcuni restauri, fra i quali il più importante resta quello della volta a botte della navata centrale, anticamente a crociera. Anticipata da un ampio sagrato, che doveva ricordare il quadriportico di romanica memoria, la chiesa presenta una pianta a croce latina, una facciata regolare, con inserti in marmo rosa locale e decorazioni aggiuntive in stile barocco. I tre portali sono abbelliti da piccoli girali posti sulle leggere architravi, mentre il centrale è incorniciato da due paraste con semicolonne dall’alto basamento, fiancheggiate da girali a forma di conchiglia in basso (la conchiglia è un elemento simbolico riguardante San Giacomo e il famoso Cammino verso Santiago de Compostela) e festoni in alto. I portali sono sormontati da finestre architravate con modanature lineari e lisce, secondo la moda rinascimentale; quella centrale, posta al secondo ordine, presenta eleganti volute laterali e un piccolo timpano soprastante secondo canoni brunelleschiani. Bella e visibile da tutto il paese l’alta torre del campanile, con doppio ordine di finestre rinascimentali arcuate con lo stemma dei Lanza sulla chiave di volta, e una singolare cupola semicuspidata dalla foggia orientaleggiante.
Varcata la soglia centrale, ci troviamo in un ambiente diviso in tre navate con la maggiore centrale di larghezza doppia rispetto alle laterali, separate da una serie di colonne in pietra serena, la stessa che si può notare nelle decorazioni del secondo ordine della facciata e all’interno del palazzo principesco antistante. Evidente l’impronta gesuitica nelle opere ivi collocate: lungo la navata di destra seguono, nell’ordine, un dipinto dedicato a S. Vincenzo Ferreri (Joseph Tresca, 1753), una tela raffigurante S. Ignazio da Loyola, un dipinto raffigurante S. Filippo Neri (attribuibili a Gaetano Mercurio), un dipinto con S. Michele Arcangelo (J. Tresca, 1753), che riprende il tradizionale culto medievale di S. Michele a Galati, probabilmente ispirato dal più famoso omonimo quadro di Guido Reni; lungo la parete destra del transetto, invece, abbiamo una statua lignea raffigurante S. Ignazio da Loyola (Mercurio?), una SS. Trinità (Antonio Gagini, 1545, prima nella chiesa di S. Luca), un S. Giacomo Apostolo (realizzazione artigianale in legno e gesso), Il Calvario e la Madonna. Quest’ala fu corredata di una cappella voluta dalla famiglia Lanza, insieme a un dipinto raffigurante il patrono di Galati, S. Giacomo, oggi collocato sopra la porta d’ingresso e sostituito dal gaginiano complesso monumentale della Trinità, proveniente dalla chiesa di S. Luca. Proprio in questa cappella, sotto una lapide sepolcrale posta sul pavimento, sono sepolti il barone Gian Vito e la figlia baronessa Maria Marchiolo Lanza. Dalla parte opposta, sul lato sinistro del transetto: un altare con Cristo risorto, un’Addolorata (XIX sec.), l’Annunziata (Antonio Gagini, 1552); sulla parete laterale sinistra, invece, inserite nelle rispettive nicchie, troviamo: La Presentazione di Gesù al Tempio (J. Tresca, 1753), una Madonna del Rosario, un S. Antonio da Padova (J. Tresca, 1753), un S. Francesco Saverio, un S. Giacomo Apostolo (J. Tresca, 1753).
Una gradinata risalente all’Ottocento separa l’accesso al presbiterio e poi all’altare maggiore: sulla destra insistono il Martirio di Sant’Agata (Pietro Novelli, 1646-47), in cui prevalgono le espressioni naturalistiche, il pathos e la tensione religiosa dell’artista monrealese, e il Sacro Cuore di Gesù (statua artigianale in legno e gesso), sulla sinistra, la bella cantoria sormontata da un superbo organo a canne (Annibale Lo Bianco, 1720), mentre alle spalle dell’altare si trovano i dipinti dell’Immacolata (Gaetano Mercurio, proveniente dalla Badìa) donato dalla famiglia Marchiolo, eccellente promotrice dell’arte a Galati, dell’Assunzione (J. Tresca, 1751) e di San Francesco con Santa Chiara (olio su tela proveniente dalla Badìa). In sagrestia campeggia un capolavoro del ‘500, un San Sebastiano ligneo, malamente decorato, si pensa abbia ispirato l’omonimo dipinto di uno dei maggiori padri del Rinascimento italiano: Antonello da Messina.
Uscendo dalla chiesa, sul lato sinistro, guardando il palazzo baronale, si trova il Municipio del paese, collegato alla struttura religiosa attraverso la canonica, laddove, a partire dal 1630, per volere del barone Pietro III Squiglio, sorgeva il Conservatorio per l’educazione delle giovinette, diventato monastero delle Clarisse nel 1650 per opera del principe Antonio Amato. Questi fece riparare il monastero nel 1668, fece sì che divenisse claustrale con accoglienza delle novizie e donò anche il quadro raffigurante il Martirio di Sant’Agata che oggi si trova sul lato destro del presbiterio della Chiesa Madre.
PIAZZA SAN GIACOMO
La piazza, a partire dal Cinquecento, diventava luogo d’incontro, di scambio e di ostentazione del prestigio sociale. Ogni committenza d’arte, ogni comunicazione importante, ogni bando pubblico, passava da Piazza San Giacomo, segnando il definitivo abbandono della loggia con i tre archi di largo Toselli.
A Galati, i Lanza vollero essere ricordati più per le loro opere di carità che per l’immagine che potevano trarne, cosicché offrirono una chiesa ai fedeli e al loro re e provvidero a dotarla di opere d’arte e paramenti sacri. Ma fu nel corso del Seicento che l’ormai famoso Crocifisso ligneo fece la sua apparizione presso la chiesa di Santa Caterina, nella zona del Fondaco. Ancora oggi la statua si venera in città durante le feste estive dedicate ai tre santi, con il trasporto su un singolare catafalco tenuto in piedi da una serie di cordoni devozionali azionati dai fedeli, passando per la piazza principale.
Impossessatisi del feudo a discapito dei Lanza e divenuti principi, anche gli Amato parteciparono al decoro della piazza, facendo collocare una fontana con abbeveratoio, in linea con l’attività caritatevole e paternalistica dei loro predecessori.
La fontana, probabilmente, sfruttava un corso d’acqua che scendeva dal monte, lungo la linea del crinale che portava alla chiesa madre, e insisteva proprio dirimpetto al primo palazzo baronale, giusto dopo il palazzo del principe. Poco più giù, invece, si dice dopo l’arrivo di Garibaldi in Sicilia, proprio al centro della piazza, fu piantato un pioppo, a ricordo della liberazione dal regime borbonico. Pochi altri comuni siciliani possono vantare la stessa scelta simbolica: Palermo con il suo ficus benjamin piantato in Piazza Marina ne è il più vivo esempio. Alberi con centocinquant’anni di storia, a perenne ricordo di una guadagnata libertà, di una speranza, poi tradita, di una equa redistribuzione delle terre ai contadini e delle risorse agli indigenti. Forse anche i cittadini galatesi speravano in questo, di sottrarre ai più ricchi, a chi ostentava il suo bel palazzo in piazza, un pezzo di terra da coltivare per loro stessi.
Finché la fontana distribuì acqua, frescura e conforto a tutti i paesani e gli animali che passavano di lì, quel pioppo visse, offrendo riparo dal solleone estivo agli abitanti che indugiavano in quella piazza. Dopo aver prestato il suo servizio per circa quattrocento anni, la fontana di Piazza Soprana (oggi San Giacomo) fu divelta e, qualche anno più tardi, il pioppo, in linea con la sua falda, avvizzì e fu abbattuto. Al suo posto, fu piantato un alto lampione a tre braccia, testimone dell’inizio di un nuovo capitolo di storia per Galati Mamertino. Era il 1950, anno che, a buon ragione, il dott. Vicario, medico e fine antropologo di origini galatesi, indica come l’anno di apertura del paese alla civiltà moderna (il difficile periodo di passaggio tra l’epilogo estremo della millenaria “civiltà agricola” – che ne aveva contrassegnato costumi ed epoca – e l’emergente “civiltà industriale”), grazie ai nuovi collegamenti stradali (che passavano dalla piazza), all’arrivo della corrente elettrica, al rifacimento della piazza.
Usciti da palazzo De Spuches, ci dirigiamo verso il piano: a sinistra possiamo osservare, in posizione più arretrata rispetto al palazzo del principe, la sfilata dei palazzi baronali, con le loro decorazioni semplici ma eleganti, gli stemmi dei casati in evidenza sopra i portali in pietra serena. Il pian terreno di questi palazzi oggi ospita dei locali commerciali e d’intrattenimento vario, la sede della Pro-loco, il Museo di storia naturale con la Sezione Paleontologica del Museo Geologico Gaetano Giorgio Gemellaro di Palermo, che accoglie reperti preistorici del mondo minerale, vegetale ed animale: mirabile l’esemplare di Elephas mnaidriensis, elefante nano vissuto in Sicilia nel Pleistocene (circa 200.000 anni fa).
Sulla destra, in fondo alla piazza, troviamo il Monumento ai Caduti delle guerre mondiali, opera dello scultore Francesco Sorgi, inaugurato il 28 ottobre 1930 da un famoso sindaco di Galati, poi eletto podestà in età fascista, il dott. Antonino Bianco, e finanziato dal newyorchese di origini galatesi Tony Lombardo con 15.000 lire dell’epoca. Si tratta di un poderoso cippo funerario, decorato con inserti in bronzo che ricordano le spedizioni coloniali, con teste di leone ai lati, elmetto e ghirlanda nella parte frontale, sormontato da un’aquila reale con le ali spiegate, simbolo di Galati.
Spostandoci verso i palazzi baronali e percorrendone tutte le facciate, ci immettiamo direttamente lungo la via Roma. Sull’angolo di sinistra possiamo notare un altro palazzo baronale, in cui oggi, venuto meno lo strato di calce che lo ricopriva, è visibile il metodo costruttivo a base di pietra arenaria e mattoni, accompagnato da un elegante portale in pietra e da decorazioni in ferro battuto nella lavorazione della lunetta e delle ringhiere dei balconi. In questa discesa che ci porterà alla Piazza Umberto I, il nostro sguardo non potrà non posarsi sulle architetture delle case caratterizzanti il borgo. Umili casette rurali si alternano a palazzi borghesi dalle facciate semplici, con portali e finestre a rilievo, incorniciati dalla solita pietra serena dal colore caldo, a contrasto con le superfici colorate delle facciate giallo ocra, le balconate con interessanti lavorazioni in ferro battuto sia nelle ringhiere sia nelle mensole che sorreggono il basamento in marmo. Tutti i tetti presentano delle falde scoscese quanto basta a garantire lo scivolamento della neve del periodo invernale, coperti da caratteristiche tegole di terracotta. Sulla sinistra, insiste il palazzo baronale dei Capritti di Santa Lucia che presenta, ai lati dell’edificio, paraste con decorazioni in rilievo con in evidenza un giglio e altre decorazioni floreali sotto il cornicione del secondo ordine. Lo precede la centenaria drogheria, ormai dismessa, di Domenico Sava, di cui resta il portale lineare e l’insegna dipinta a mano.