Sabato 4 marzo 2017, si è svolta, alla presenza del Presidente della Banca di Credito Cooperativo di Longi, dott. Luigi Fabio e degli autori, la presentazione dell’edizione 2016 dei Quaderni della Valle del Fitalia. Si tratta di una rivista storica che si propone l’obiettivo di conservare la memoria delle tradizioni nebroidee, non solo per tramandarle ai posteri, ma anche perchè le nuove generazioni sappiano trarre, in maniera mirata e consapevole, le ricche opportunità di sviluppo economico e turistico del territorio. Questo progetto, lanciato anni fa dallo scrittore e storico galatese Salvatore P. Vicario, medico personale dello storico dell’arte Federico Zeri, è sostenuto dalla Fondazione della BCC e si avvale del contributo letterario volontario di autori vari, fra storici, scienziati, pubblicisti ruotanti intorno alla Valle del Fitalia.
Qui, di seguito, si pubblica l’articolo di Dario De Pasquale:
Ordini Religiosi Medievali della Valle del Fitalia
Nonostante i ritrovamenti di tracce di insediamenti greci nella Valle del Fitalia, non sono ancora chiare e incisive le testimonianze di presenze elleniche nel territorio, mentre è attestata, sul finire della dominazione romana, la presenza bizantina. Nel territorio nebroideo, in particolare a Frazzanò, esistevano chiese e monasteri basiliani, e questo spiega la continuità dell’attività agro-pastorale e i buoni rapporti dei casali della zona con il regno. La giurisdizione ecclesiastica, dunque, preserva le caratteristiche ambientali del posto fino alla fine, ovvero allo scioglimento degli ordini deciso dal governo unitario dopo il 1866.
L’arrivo degli Arabi, nel IX secolo, comporta l’arroccamento dei monaci basiliani nei punti più inaccessibili dei monti Nebrodi e delle Madonie, dando vita a un periodo di convivenza parallela tra islamismo e cristianesimo del tutto nuovo e culturalmente entusiasmante.
L’intera valle del Fitalia ha vissuto un’importante storia tra l’arrivo degli Arabi e l’insediamento dei Normanni, divenendo proprietà dei monaci basiliani prima e benedettini poi.
Il traghettamento dall’antica cittadina romana al feudo monasteriale avviene ad opera di monasteri di rito greco (la maggior parte ispirati a San Basilio Magno e perciò detti “basiliani”) che, dopo aver subito un periodo di crisi durante l’occupazione araba della Sicilia, riprendono le loro attività ascetiche e monastiche (praticavano la carità ai poveri e prediligevano il lavoro manuale artigianale, compresa l’agricoltura) con l’arrivo dei Normanni.
La diffusione del basilianesimo in Sicilia è legata al passaggio di gruppi consistenti di monaci dell’Africa del Nord e del Medio Oriente sotto la frenetica spinta delle conquiste persiane e africane compiute dalle “sacre armate” islamiche. La presenza dei Basiliani è così gradita agli isolani che alla fine del VII secolo la Sicilia diviene quasi interamente bizantina, nonostante si trovi sotto la giurisdizione ecclesiastica romana. In questo periodo l’Isola conosce un rigoglio culturale e religioso tale da caratterizzarne l’identità nei secoli a venire. A testimonianza di tale grandezza, si ricorda che, tra il 678 e il 701, la Chiesa ha ben tre papi siciliani di origine orientale (due palermitani e un messinese, si dice, di Milici), siciliano è anche il papa Stefano III (768-772) e siciliani sono i due patriarchi di Antiochia, il patriarca di Costantinopoli, alcuni santi, poeti e teologi dell’epoca. I monaci bizantini vivono un periodo di decadenza sotto la dominazione araba dei secoli IX-XI, ma trovano nei luoghi più impervi dell’Isola dei tranquilli siti di meditazione. La zona tirrenica che va dai Nebrodi fino al Peloro, per le sue caratteristiche morfologiche, rimane di difficile penetrazione per i saraceni, più interessati ai territori pianeggianti e produttivi.
Particolarmente interessante, a tal proposito, risulta l’utilizzo della via Messina – Palermo e delle piccole roccaforti (kastellia) collocate lungo il percorso con il ruolo di controllo strategico del territorio, come Pizzo Mueli o il sito di Rocche del Crasto, sito a circa 1000 metri di altezza. E’ più che plausibile l’utilizzo militare e monastico, più che commerciale, di tali vie di comunicazione, vista l’estrema difficoltà di passaggio.
Si spiega facilmente come in questi luoghi si concentrino oggi i più significativi esempi di architettura basiliana. Rientrati in Sicilia con i Normanni, i monaci basiliani che s’erano allontanati dall’Isola con l’arrivo degli Arabi si reinsediano, soprattutto nell’area peloritana, luogo ritenuto sicuro e idoneo per una eventuale fuga, tanto più da quando viene presidiato dalle guarnigioni normanne.
Inoltre, i Normanni s’impegnano a restaurare, fondare e dotare le chiese basiliane e i relativi vescovadi mantenendo gli abati di rito greco, per poi sostituirli, ma solo alla loro morte, con quelli di rito latino. In questo modo, riescono ad assicurarsi il pieno controllo del territorio, riportando sotto la giurisdizione latina tutte le diocesi bizantine. Con lo stesso obiettivo, sotto il governo del conte Ruggero, ha inizio la costruzione del monastero del SS. Salvatore di Patti per il controllo del territorio fra Milazzo e Tindari (1094). Grazie al lavoro diplomatico di San Bartolomeo da Simeri, viene fondato a Messina l’Archimandritato del SS. Salvatore, con decreto del Re Ruggero II di Sicilia del maggio del 1131, con il quale si eleva il monastero del SS. Salvatore in lingua phari di Messina a “mandra” ovvero “Mater Monasteriorum”, guida di tutti i monasteri basiliani della Sicilia e della Calabria.
E’ con i Normanni, però, che prende vita la storia medievale nebroidea, allorquando Galati diviene il primo feudo assegnato dal conte normanno Ruggero I al fedelissimo Nicolò Camuglia. Nel 1090 Ruggero fa ricostruire il monastero di S. Pietro in Mueli e lo affilia al più grande monastero di Fragalà. Alla seconda moglie di Ruggero, Adelaide, rimasta ormai vedova e prossima alle nozze con il re Baldovino di Gerusalemme, si deve la costruzione della Chiesa di S. Anna, annessa all’omonimo monastero benedettino, oggi scomparsi.
La storia dei Normanni nel XII secolo si fonde con la presenza sveva in Sicilia, grazie al fortunato matrimonio di Costanza di Altavilla col figlio dell’imperatore Federico Barbarossa, Enrico VI. Gli Svevi operano in soluzione di continuità con i Normanni, ne rispettano la struttura amministrativa, incentivano l’istruzione e la produzione agricola, sulla scorta delle esperienze arabe. Il principio ecumenico di Federico II, della convivenza delle diverse religioni nel suo regno siciliano, porta ricchezza e prosperità all’intera Isola e all’impero. Cristiani, ortodossi, ebrei e musulmani vivono sotto lo stesso tetto del suo lungimirante governo. Il risultato, visibile ancora oggi, consiste anche nella permanenza di parole di origine greca, latina e araba nella nostra lingua e nell’insieme delle splendide architetture in stile composito.
Diverse ma circostanziate vicende hanno dato vita a una fase di costruzione (e di ricostruzione) di edifici chiesastici nell’area del Valdemone: innanzitutto, il nuovo spirito conciliare post-tridentino che vedeva nell’Isola un particolare afflato da parte di clerici e fedeli verso una Chiesa rinnovata su basi controriformistiche; da non sottovalutare, inoltre, le favorevoli congiunture economiche del territorio messinese riguardo al comparto commerciale, alla produzione di seta e di prodotti agricoli, che trova pronte imprenditoria e borghesia agraria a sfruttarne i buoni influssi.
La ricostruzione di edifici religiosi tra il 1580 e il 1630, in Sicilia, avviene verso due direzioni: una, che possiamo dire “moderna”, rispetta lo schema iconografico degli edifici di culto tardo-rinascimentali siciliani, con corpo centrale trinavato e ampio transetto (sui modelli brunelleschiani); l’altra, più antica, riprende i caratteri dell’edificio basilicale medievale (ispirati alle basiliche paleocristiane e alle cattedrali normanne siciliane), con transetto ridotto e addossato alle absidi, caratteri comunque fortemente mediati da elementi di modernità come gli ordini, le grandi arcate a tutto sesto, le finestre.
La Chiesa di Santa Caterina di Galati Mamertino, ad esempio, ripete più fedelmente schemi iconografici medievali: breve corpo longitudinale, unica navata con ampia scarsella coperta con volta a padiglione contenente la statua della titolare, priva di transetto, colonne in stile corinzio, piccole cappelle laterali insolitamente separate da tramezzi in muratura, secondo un linguaggio arcaico raramente adottato altrove (vedi eccezioni come la chiesa di San Cono a Naso, la matrice a Savoca, Santa Caterina a Piraino). In misura minore, ma sempre nello schema architettonico tardo-medievale, rientra la Chiesa del Rosario, trinavata e priva di transetto, con scarsella contenente l’altare e una statua gaginiana.
Grazie a una Chiesa rinnovata e al ricco commercio legato alla produzione della seta e di prodotti agricoli, gli edifici religiosi della Valle del Fitalia hanno avuto nuova vita e continuano ad offrirci una prodigiosa testimonianza culturale di tempi ormai passati.
Dario De Pasquale