Se Messina da un lato era preda d’avidi amministratori, dall’altro poteva contare sulle generose iniziative di nobiluomini e nobildonne.
Fra i personaggi più osannati dalla popolazione messinese nella seconda metà del Settecento per nobiltà d’animo e d’intenti spiccava la figura del monsignor Gaetano Grano.
Storico, erudito, archeologo, umanista, era nato a Messina il 21 novembre 1754 e, ad appena diciotto anni, aveva assunto l’incarico d’insegnante di retorica presso lo Studium messinese. Studioso ricco di passione e dotato di grande capacità d’osservazione, si era dedicato all’esplorazione della natura, studiando i banchi coralliferi, le conchiglie, i fossili, e consegnando importanti scoperte scientifiche al noto biologo Lazzaro Spallanzani, che le andava pubblicando come sue.
Fra le più interessanti annoveriamo la sua avanzata teoria delle cause delle correnti nello stretto di Messina, che la leggenda attribuiva ai vortici creati da un fondale a forma conoide e che, invece, dall’ingegnoso monsignore venivano attribuite all’esistenza di una frattura causata dal continuo passaggio del magma vulcanico. Sulla stessa base, il Grano rifiutava la spiegazione elettromagnetica dei fenomeni sismici, spostando ancora una volta l’attenzione sui vulcani, o meglio sulle contrastanti forze endogene di cui i vulcani sono indice, «spiragli», come diceva, «che anche oggi s’indagano». Sconcertanti intuizioni di un intellettuale illuminato.
Per le sue scoperte si era guadagnato l’ammirazione del marchese toscano Manfredini e del cavaliere De Medici. Nel 1780, a ventisei anni, lavorava come bibliotecario della Regia Accademia Carolina, appassionandosi di archeologia, intesa nell’accezione moderna di studio della storia antica.
Nove anni dopo quell’incarico il re lo nominava Giudice ecclesiastico della Regia Udienza e nel 1791 veniva eletto Giudice delegato del Regno in Messina. Dopo la Rivoluzione, il re avrebbe voluto confermarlo Giudice della Monarchia in Sicilia, ma Grano rifiutava prontamente la carica, accettando quella di membro per la compilazione del Codice del Regno delle Due Sicilie nel 1812. Nella veste di parlamentare proponeva la riforma di leggi sociali ormai anacronistiche, nella ferma ed altruistica intenzione di liberare il popolo dalla struggente povertà in cui versava ai tempi, riscattandolo attraverso lo sfruttamento razionale del terreno, l’incremento del commercio e la creazione di un’industria che avesse la forza di sottrarre allo straniero lo sfruttamento delle materie prime siciliane. Infine, si batteva per una riforma sanitaria a favore della sua città, proponendo l’istituzione di un Ospedale Civico. Durante la sua lunga vita rivestiva la carica di priore dell’abbazia di S. Andrea di Piazza. Moriva in seguito ad una paralisi, il 13 marzo 1828.
Scienziato ed erudito, era conosciuto in campo internazionale anche come autore colto e raffinato d’iscrizioni, carmi e orazioni, oltre che di un testo scientifico di profetiche osservazioni e di un libro di memorie sui pittori messinesi, consegnato alle cure dell’artista Filippo Hackert, che ne realizzava un’elegante edizione. Grano, però, aveva rifiutato l’apposizione della sua firma, anche se i suoi attenti lettori sapevano che dietro l’«amico dotto e intelligente delle Belle arti che le ha compilate», stava il prestigioso monsignore. L’artista Letterio Subba eseguiva un suo ritratto nel 1812 e lo scultore Antonino Minasi lo convertiva in acquaforte per la stampa delle Inscriptiones. Pare che lo stesso servì ai suoi nipoti per erigergli un monumento in marmo presso la Chiesa dei Padri Cistercensi di Messina.
La famiglia Grano godeva di legami parentali con i Ruffo, i Faravone, i Castelli, i Micaletti e i Vita.
La fortuna della famiglia Grano volgeva al termine negli ultimi anni dell’Ottocento, quando gli eredi di Giuseppe Grano (1828-1908), nipote del monsignore, sperperavano il notevole patrimonio immobiliare che li aveva visti tra i fortunati possessori delle preziose acque che dissetavano la città.
Negli anni settanta, Giuseppe aveva adibito a sede scolastica comunale alcuni locali del suo splendido palazzo (ex Roccafiorita) di via Oratorio della Pace. Chiuso quel capitolo nel 1892, l’Indicatore del 30 dicembre dell’anno successivo recava in cronaca che la pinacoteca del cav. Giuseppe Grano era in vendita e che il cav. Ignazio Virzì di Palermo offriva tremila lire per tre quadri, con il crudo commento finale: «li otterrà facilmente, viste le condizioni affatto floride del venditore». Il triste epilogo di questa lunga saga familiare avverrà con il suicidio dell’ultimo discendente della famiglia, Letterio Grano.
Caduto nell’oblio da quasi cento anni, monsignor Grano è stato riportato alla luce e rivalutato dall’impegno e dalla sapiente penna del giornalista Vanni Ronsisvalle. In città manca un monumento o una lapide che lo ricordi, il suo nome oggi è tristemente legato a una piccola via della zona Provinciale.
Altro personaggio d’indole generosa era Francesco Di Paola Villadicani, nobile messinese della famiglia dei Principi di Mola. Nato a Messina il 23 febbraio 1780 da Mariano Villadicani e Donna Lucrezia Porco, all’età di ventiquattro anni veniva eletto cappellano della nobile Arciconfraternita di S. Basilio degli Azzurri (nella cui deputazione i Porco erano presenti da svariate generazioni) e poi padre e confessore del Conservatorio delle Ree Pentite. Fin da giovanissimo si era prodigato per il recupero dei luoghi di culto distrutti dal terremoto del 1783: aveva fatto ricostruire il seminario dei chierici, creato il Real Collegio delle Scuole Pie, i gabinetti comunali, gli stabilimenti letterari, le scuole private, l’Accademia Peloritana. Villadicani, per niente pago dei suoi sforzi, si concentrava sull’istituzione di un museo civico che, dopo anni di solerti lavori in collaborazione con Carmelo La Farina, vedeva la luce nel 1806. Il plesso, collocato in Via del Rovere, accoglieva le opere d’arte già custodite dai Gesuiti presso l’Accademia Carolina e i donativi di numerosi benefattori quali l’abate Gregorio Cianciolo, il barone Placido Arenaprimo, il cavaliere Giuseppe Carmisino e il dottor Giuseppe Cacopardo.
Il 27 gennaio 1843 Francesco Villadicani si recava a Roma per vestire la porpora e faceva ritorno a Messina il 18 luglio dello stesso anno, accolto da un popolo esultante. Il giorno dopo era oggetto di un sentito elogio da parte del segretario generale della Reale Accademia Peloritana, l’amico ed insigne letterato Carmelo La Farina.
Lasciti e donazioni di ingenti somme di denaro a favore di istituti di carità non erano certamente casi isolati.
Giovanni Capece Minutolo, principe di Collereale, nato a Messina il 29 aprile 1772, aveva seguito la carriera militare fino al raggiungimento del grado di Maresciallo di Campo. Ben presto una paralisi alle gambe lo aveva costretto ad assentarsi dal servizio militare, ma non lo aveva distolto dal comando della Cittadella. Il 7 luglio 1825 donava tutti i suoi averi ai poveri e il 20 marzo 1827 concludeva la sua breve vita con la consolazione di vedere ultimati i lavori di costruzione del suo «Pio Stabilimento» per gli storpi, presso il villaggio S. Clemente, nel sito una volta occupato dal Convento di S. Alberto.
A continuare la caritatevole opera del principe di Collereale fu un altro benefattore, questa volta di origini straniere, Giovanni Walser. Nasceva ad Heyden, cittadina dei cantoni svizzeri, nel 1769, da una famiglia di ricchi negozianti. Dopo aver viaggiato come commesso in affari, si trasferiva a Messina, dove aveva fondato un istituto finanziario. In un breve volgere di tempo, riusciva a conquistarsi la fiducia di un gran numero di clienti e la sua fama varcava la Manica, chiamato in causa dal governo britannico per un credito pari a circa ventimila onze. Nel 1821 lasciava la procura della sua ditta in commercio a Federico Grill per trasferirsi ad Aversa (NA), dove promuoveva la costruzione di uno «stabilimento di beneficenza». Poco tempo dopo il ritorno nella sua amata Messina, moriva il 14 maggio 1833.
Walser lasciava un legato di ventimila onze al Pio Stabilimento di Collereale. Al fine di gestire questa ingente somma si era reso necessario nominare nuovi amministratori e la scelta era caduta sul banchiere Federico Grill, sul Cav. Raffaele La Corte e sul negoziante Giuseppe Romano.
A favore del Pio Stabilimento seguivano altri lasciti: dell’avvocato Brigandì, del Marchese Villadicani, del signor Gullotta, del professor Antonio Migliorino ordinario di letteratura italiana presso l’Università degli Studi di Messina, del sacerdote Calabrò, dei mercanti Giuseppe Nobolo, Pietro Mondio, Antonino Pugliatti, Letteria Gullotta, del giudice Mariano Gentile.
Federico Grill (1784-1868), giovane rampollo di una famiglia di ricchi banchieri bavaresi di Augsburg, si trasferiva a Messina nel 1803, allettato dalle ottime prospettive di sviluppo commerciale, dal clima e dalla bellezza della città dello Stretto. Dopo aver trascorso venticinque anni della sua vita al fianco di Giovanni Walser, con mansioni di contabile ed amministratore del suo patrimonio, era nominato amministratore unico della sua consolidata ditta. All’apertura del testamento del Walser si sorprese quando seppe di essere stato nominato suo erede universale. Federico, consapevole dell’enorme fortuna che gli era piovuta addosso, si prodigava negli affari rivolgendo tutta la sua generosa attenzione verso gli indigenti. Vivacemente sollecitato dai richiami dell’arte, patrocinava eventi culturali locali e, in particolare, diveniva il mecenate del pittore messinese Dario Querci.
Nel suo testamento del 1865, depositato presso il notaio Sebastiano Domenico Micale, Federico nominava erede universale il nipote Paolo. Questi prendeva il suo posto nell’azienda di famiglia e si guadagnava la posizione di amministratore della Banca Nazionale e di presidente della Banca Siciliana. Ebbe quattro figli: Federico, Adolfo, Emma e Amalia. Federico prendeva le redini della ditta Walser e, dopo qualche tempo, chiamava a sé il fratello più giovane per esercitare l’attività di recupero crediti. I due mettevano a profitto la debolezza delle piccole ditte commerciali che non avevano mezzi finanziari sufficienti per affrontare lunghe ed estenuanti cause giudiziarie contro potenti debitori: la ditta Walser, solida abbastanza per avere ragione sui debitori più ostinati, acquistava volentieri i loro crediti. Federico, come lo zio di cui portava il nome, si era rivelato talmente abile nel mestiere, da recuperare un numero non indifferente di crediti, fra cui quello di circa cinquantamila lire che i fratelli Gentiletti vantavano verso il mercante di grani Luigi Pirandello, uno dei più scaltri proprietari terrieri del messinese dalla nascita dello Stato unitario.
Il 15 settembre 1872, con il cugino Giorgio e il socio Andreis, dava vita alla Società di Riassicurazione Marittime, Fluviali e Terrestri «Poseidon», con sede in Stoccolma. Per motivi tecnici ed amministrativi, la società veniva messa in liquidazione il 25 novembre 1873.
Federico rivestiva anche la carica di console del Portogallo, con sede in Largo Teatro Vittorio Emanuele n. 20. Il 3 ottobre 1891 liquidava anche la ditta Walser a favore del fratello Adolfo, il quale, il 18 ottobre 1892, gli restituiva la cortesia attribuendogli una rendita vitalizia di 2.400 lire annue. Da quella data Federico decideva di trascorrere il resto dei suoi giorni a Roma. Il suo soggiorno, tuttavia, veniva funestato da una convocazione in tribunale per insolvenza di tre cambiali nei confronti della ditta di Pasquale Esposito. Venuto a conoscenza del suo allontanamento da Messina e del vitalizio messogli a disposizione dal fratello Adolfo, l’Esposito faceva pignorare i beni suoi e della moglie Concetta La Corte, la quale nel frattempo si era costituita come mallevadrice del debito. L’articolo 1790 del codice civile del Regno riportava inequivocabilmente l’insequestrabilità della rendita vitalizia assegnata a titolo di alimenti e il procuratore legale dei fratelli Grill, infatti, avrebbe insistito a lungo su questa linea. L’avvocato della controparte, invece, argomentava che il vitalizio fosse a titolo oneroso e quindi sottoponibile a sequestro, ai sensi dell’articolo 1800 del codice civile, sottolineando il fatto che la ditta Walser e C. fosse passata nelle mani di Adolfo poco tempo dopo l’elargizione degli alimenti. Il giudice dava ragione all’accusa: «è fuor di dubbio che essa rappresenta il corrispettivo della cessione dei diritti fatta come socio della ditta Walser del signor Federico Grill al signor Adolfo Grill».
Federico si vedeva sottratti gli alimenti fino all’estinzione del debito nei confronti della ditta Esposito. Nel novembre del 1904, Pasquale Esposito, titolare dell’omonima ditta, cedeva la rimanenza di tale debito all’Esattore delle Imposte di Messina.
Molti servizi pubblici erano nati per mano dei benefattori. Fino al 1865, a Messina, esistevano 25 ospedali, 35 fedecommessarie, 7 conservatori, 1 orfanotrofio, tutti al servizio di quattromila bisognosi e con una rendita di 284.374 lire; 26 monti di prestanza con una rendita di 34.550 lire; 21 monti frumentari di fondazione privata con un reddito complessivo di 94.787 lire. In tutto 115 stabilimenti di pubblica beneficenza, per una rendita totale di 413.711 lire. I bilanci dei monti frumentari erano notoriamente poco trasparenti. Già nel 1865, lo Stato aveva dovuto metterli in liquidazione «per effetto di mal condotta amministrazione», scriveva il prefetto di Messina Carlo Faraldo, perchè «non han da più tempo risposto al loro scopo, e quelle somme, anziché riuscir, come dovrebbero, di sollievo ad un tempo e di sussidio all’agricoltura, quali capitali dati a prestanza sui fondi, divengono qualche volta oggetto di favori o di privato interesse».
Nel suo testamento olografo del 20 ottobre 1885, il senatore Giuseppe Cianciafara lasciava al Comune un legato di ottantamila lire per il restauro del pavimento del Duomo, a patto che la stessa amministrazione concorresse ai lavori per la somma di ventimila lire.
Allo stesso modo, l’ingegnere Giacomo Fiore disponeva legati a favore del Comune per la costruzione di una villa pubblica sulla collina Agliastro, di un asilo notturno, di una cucina economica e del restauro della facciata del Duomo.
Le benefattrici
Le nobildonne di Messina, soprattutto se vedove e senza prole, erano solite lasciare i propri ingenti patrimoni a congregazioni religiose, ad orfanotrofi e al Comune di Messina perché fossero destinati alla cura, al sostentamento e all’istruzione di giovani bisognosi.
Nei primi anni del Novecento lo storico Gaetano La Corte Cailler compiva un’interessante ricerca sulla beneficenza di donne messinesi dalle origini fino ai suoi giorni. Dalla pubblicazione di questo lavoro veniamo a conoscenza di una lunga serie di nomi di donne benefiche, a cominciare dalle contesse Violante Palizzi, Beatrice Belfiore e Leonora di Procida, appartenute ad illustri e ricche famiglie siciliane. Esse per prime, a Messina, abbracciavano la religione francescana e nel 1254, dietro la concessione della bolla di papa Alessandro IV del 9 gennaio di quell’anno, ponevano la prima pietra della Chiesa di S. Francesco nello stesso luogo in cui sorge oggi. Infine, le tre contesse si allontanavano volontariamente dai lussi e dai fasti cittadini per ritirarsi in una zona isolata a sud della città, dove davano vita a un villaggio denominato, ancor oggi, «Contesse».
La giovanissima Francesca Cibo, pronipote dell’arcivescovo di Messina, nel 1618 aveva appena sposato Giovanni Lanza Abate, principe di Malvagna. Ma Francesca moriva poco dopo i festeggiamenti delle nozze, in seguito a un malore, ad appena quindici anni. Il vedovo le dedicava un magnifico sarcofago di bronzo dorato, custodito presso la Chiesa di San Francesco di Messina, «il più sontuoso che esistesse in Sicilia». Il lavoro era ornato da due putti piangenti, con arabeschi e fregi, nei quali erano incastonate gemme e pietre preziose. Il tesoro veniva nel tempo parzialmente trafugato, infine impiegato per la realizzazione della corona della Vergine Immacolata.
A metà degli anni settanta dell’Ottocento, accanto allo scalone principale del Palazzo Senatorio, veniva apposta una lapide che ricordava due grandi benefattrici della città: la contessa Anna Barbò e la nobile Maria Luisa Di Francia La Farina, mentre in Piazza Casa Pia un’altra lapide riportava i nomi di altre donne benefiche, seguiti dall’anno di donazione: Ignazia Polimeni in Migliorino (1882), Letteria Arena in Biasini (1898), Maria Assisi in Picchetti Moleti (1905).
Fra queste donne è più duratura la fama di Maria Luisa Di Francia (1812-1878), moglie del patriota Giuseppe La Farina, la quale, in vita, assegnava al Comune un capitale utile alla fondazione di tre Asili d’Infanzia (a Messina, a Firenze e a Torino) e all’istituzione del «Premio La Farina», destinato a giovani nati e residenti a Messina distintisi negli studi letterari, artistici o scientifici. Attraverso il suo testamento, invece, elargiva pensionati ai giovani poveri e meritevoli perchè potessero conseguire studi all’estero, nonché sussidi alla Società Operaia di Messina e alla Reale Accademia Peloritana.
Ecco l’iscrizione funeraria presso il Gran Camposanto di Messina che ancora la ricorda:
Qui
accanto allo sposo
Giuseppe La Farina
abbiano requie
gli ineffabili dolori
di Luisa Di Francia
culta e austera donna
che nei lutti d’inconsolabile vedovanza
per quindici lunghissimi anni
consumò col pianto la vita
la patria che ne glorificò il consorte
oggi addita alle mogli
un raro modello di virtù coniugali
4 febbraio 1878
Il 7 novembre 1878 il sindaco di Messina Giuseppe Cianciafara invitava il Consiglio ad accettare, nei termini di legge e con beneficio d’inventario, l’eredità Di Francia-La Farina, mentre i parenti della defunta protestavano vivamente e intentavano una domanda giudiziale per l’annullamento delle disposizioni della vedova: «in quell’atto chiamasi insano un intelletto che pur fra i travagli della sventura mantenne ammirevolmente sereno e sconosciuto l’esempio di un raro affetto coniugale e di un’eroica virtù che tutti ammirarono e di cui un uomo insigne ha testé in una sua lettera tenuto proposito, come egli che di sì egregia donna serba memoria viva».
Maria Caterina Scoppa dei baroni di Badolato (1832-1904), moglie del ricco imprenditore Gaetano Loffredo, era stata la dinamica promotrice della fondazione di numerose chiese e istituti religiosi a Messina e provincia: la Chiesa di S. Caterina con l’annesso convento, il Collegio Salesiano di Alì, la Chiesa della Rosa a Gazzi e il relativo Ritiro per le giovani donzelle traviate, l’Orfanotrofio di Padre Annibale di Francia, il Santuario di Calvaruso.
Maria Paternò Castello (1870-1908), principessa di Castellaci, Sperlinga e Manganelli, si era prodigata per l’arte e le lettere ed aveva istituito numerosi legati nei confronti delle Scuole cittadine. In vita aveva espresso il desiderio di legare alla città di Messina il Museo di Donnafugata, sito in provincia di Ragusa. Sposa ventinovenne del conte Francesco Marullo, veniva sepolta dalle macerie del terremoto del 1908 e, con lei, i suoi grandi progetti culturali per Messina.
Erminia Elisabetta Gellert (1839-1908), figlia di un pastore evangelico, si era stabilita giovane a Messina ed era divenuta moglie di Carlo Peirce, un ricco negoziante d’origine inglesi e parte attiva durante i moti insurrezionali del 1 settembre 1847. Poliglotta, pittrice, aveva sostenuto le arti liberali e fatto dono d’alcuni quadri di famiglia al Museo Civico di Messina e al Municipio. Nel suo testamento del 1908 destinava al Comune di Messina un capitale di centomila lire per la costituzione di un fondo di beneficenza dedicato al marito; inoltre, donava somme da quattromila a trentacinquemila lire all’Ospedale Civico, alla Società Operaia, al Patronato Scolastico, perchè venissero tutelati i diritti degli studenti poveri e disagiati, agli Asili d’Infanzia, alla Croce Rossa e ancora al Comune perchè sostenessero i giovani di talento, privi dei necessari mezzi finanziari per perfezionarsi in un’attività artistica o laurearsi in un ramo scientifico.
Lasciava disposizioni affinché il suo patrimonio artistico e librario venisse distribuito in parte alle varie biblioteche della città, in parte ai propri parenti. Il destino, purtroppo, riservava un’altra sorte ai quadri e ai libri custoditi presso la sua abitazione all’angolo fra la via Garibaldi e il torrente Boccetta, e li seppelliva tra le macerie del terremoto del 1908.
Ricordiamo anche le donne dei rivoluzionari, sempre al fianco dei loro uomini, nonostante le inevitabili difficoltà:
Letteria Li Voti, moglie di Luigi Pellegrino. Una lapide presso il Gran Camposanto di Messina la ricorda così:
Estremo asilo dato dal comune
alle ceneri
di Letteria Li Voti fu Domenico
1826-1901
degna di Sparta
guardò serena il patibolo
che la tirannide preparava
a Luigi Pellegrino
obliata dagli amici della ventura
morì povera benchè vedova di lui
Concetta Pellegrino, madre di Luigi Lombardo Pellegrino:
Concetta Pellegrino ved. Lombardo
visse
ne la luce d’un ingegno superbo
con la forza d’una pura coscienza
per la fede che sublima una madre
i figli
sessantaseenne morì
con la stessa luce
la stessa forza
la stessa fede
il 27 marzo 1912
Le poetesse
Letteria Montoro, compositrice di versi patriottici, visse poveramente al seguito dei fratelli condannati all’esilio. Il Comune di Messina le dedicò una lapide presso la Galleria monumentale, con la seguente iscrizione:
Qui per volere del comune
l’ala dell’oblio non graverà sulle ceneri
di letteria montoro
che l’anima forte ed eletta
trasfuse in versi soavi ed in prose eleganti
donna di spiriti liberali
confortò i fratelli che combattevano
per la redenzione d’italia
li seguì nell’esilio
e ad essi tornati in patria
sacrificò cristianamente la vita
mirabile esempio di fraterno affetto!
19 aprile 1825-1 agosto 1893
Un’altra giovane speranza della letteratura messinese fu Italia Coffa, originaria di Noto (SR), ricordata al Gran Camposanto con l’iscrizione di una sua pregevole poesia sulla lapide posta nel parterre d’onore:
Lassù lassù
ove non giunge più lo sguardo umano
in quella sfera
in quelle plaghe fulgide e serene
oltre le nubi, in alto
io sorrido ad un’alba senza sera
ad un amor ch’è grande
Italia Coffa
nata il 9 gennaio 1874
morta il 23 ottobre 1894
Estratto dal libro: Mille volti, un’anima: dal Gran Camposanto di Messina all’Unità d’Italia, un percorso iconografico alla ricerca dell’identità perduta, di Dario De Pasquale, ABC Sikelia Edizioni, 2010.